Com’ebbi occasione di dire parlando dei trascorsi che Hemingway visse in questo luogo,  non era siffatto il nome originario. Fino a novant’anni fa era Melma il suo nome, dal longobardo “melm”, toponimo legato alla fertilità del suolo. Nel tempo il termine melma venne ad assumere un diverso significato, non gradito agli abitanti, si preferì dare alla cittadina il nome di quel bel fiume che l’attraversa, il Sile, il fiume di risorgiva più lungo d’Europa.  

Proprio la presenza di quel corso d’acqua con tributari  il  Melma che nasce dalle polle delle Fontane Bianche a Lancenigo, e il Nerbon, significò il possesso umano dell’insediamento già in tempi antichi (palafitte). Cinquecento anni prima di Cristo avvenne però qui un evento catastrofico, che cancellò quanto di esistente fino ad allora. Qualcosa rimane dai reperti conservati al museo civico di Treviso, ottenuti con l’escavazione della ghiaia che il Sile generosamente forniva in grande quantità ai cavatori. È quindi possibile avere testimonianze più precise solo dell’epoca dei Romani, che pacificamente si unirono ai Paleoveneti. Roma rese più rilevante il sito con la centuriazione, la costruzione della via Claudia Augusta Altinate, anch’essa dispensatrice di alcuni reperti.

Nel Medioevo la zona fu bonificata, e i monaci benedettini di stanza nella vicina Casier introdussero la religione cristiana. Oltre che dai discendenti dei Venetici, il territorio era a quel tempo occupato da genti di origine romana, longobarda e germanica. Le terre lavorate, per la maggiore di proprietà del clero come la “curtis de Cendono” o dogale come quella di Musestre erano fertili, ma il suolo era soprattutto cosparso di boschi. Quando la proprietà delle campagne si frazionò, anche a seguito di iniziali disboscamenti, ci fu l’esigenza di proteggerne i confini; nacquero le “vicinia”, assoggettate alle “regole” della comunità (ville). Con a capo il “meriga” si formarono Villa de Sancta Elena, Villa Melme e Villa Pendula. La maggior parte degli abitanti erano contadini, pescatori, battellieri, piccoli artigiani. Quei terreni fertili rendevano cereali, legumi e ortaggi, i boscaioli di Melme portavano i tagli di legna al mercato di San Michele, oggi “Prato alla Fiera” di Treviso. Anche Sant’Elena ebbe poi il suo mercato, importante per la vendita di animali.

Nel ‘600 ci fu la grande peste, che ridusse sensibilmente il numero degli abitanti. Erano tempi di povertà, di scarsa igiene. Per visitare gli appestati il medico della peste indossava una maschera munita di un lungo becco dentro al quale erano introdotte sostanze vegetali ritenute tali da tener lontano il morbo (lavanda, menta, chiodi di garofano, aglio e tanto altro). Non c’erano luoghi di sepoltura per i morti: si scavava una buca accanto all’abitazione, e lì si seppellivano.

Risollevato l’habitat da quella piaga, gli abitanti migliorarono il loro stato. L’abbondanza di corsi d’acqua generò anche l’attività di macinazione dei cereali, quindi copiosità di mugnai.

Prima di entrare sotto il dominio di Venezia, Silea passò sotto il potere dei Da Camino, degli Scaligeri e dei Da Carrara (i trevigiani della stirpe dei Collalto, i veronesi, i padovani).

La Serenissima significò quattro secoli di serenità; i patrizi veneziani si diedero all’edificazione  delle loro ville, quelle ville  venete che numerose rendono speciale il territorio trevigiano.

Fu nel 1816 che Silea divenne Comune, con frazioni Sant’Elena e Cendon; interessanti località sono Canton, Franceniga e Lanzago. Rispondeva quest’ultima alla Regula S. Pauli de Lançago, distrutta dalla disastrosa piena del Melma. A colmare la devastazione ci pensò poi la guerra di Cambrai.

È tempo ora di andar a conoscere qualche luogo di particolare interesse tra architetture religiose  e civili, numerose entrambe. Le chiese sono per lo più del ‘400, come la chiesa di San Michele Arcangelo nel capoluogo,

che ha la data incisa sul portale, e la classica facciata romanica, a capanna.

La chiesa di Sant’Elena Imperatrice posta nella frazione Sant’Elena, sorta su un tempio dell’ XI secolo e dedicata già allora a Sant’Elena. La chiesa attuale è il risultato di grossi restauri con utilizzo di grandi blocchi di pietra per la facciata, l’interno è barocco del Settecento veneziano.

Sempre del XV secolo è la chiesa di Cendon, dedicata ai Santi Vittore e Corona, dal cui campanile suonano le campane che un tempo squillavano dalla chiesa della Pietà di Venezia.

Le Ville Venete sono numerose qui. Al sopraggiungere dell’estate, i patrizi veneziani amavano soggiornare  nelle ville intorno a Treviso. Le raggiungevano in sfarzose carrozze o con imbarcazioni a godere dell’aria di campagna, della caccia, e a far feste.

Così si esprimeva nel ‘500 Girolamo Priuli che divenne poi doge: “li nobili et citadini veneti inrichiti volevano triumfare et vivere et atendere a darse a piacere et delectatione et verdure in la terraferma et atri spassi assai… et compravano possessione in terraferma traspagando il dopio de quello valevano… et facevano palagi et spandevano denari assai, et bisogna poscia… Una charetta et cavalli excellenti… in tantum che le entrate… se expendevano in pasti e solazi”.

Di norma la Villa Veneta si componeva della parte padronale, barchesse, tempietto-oratorio, giardino, entità che non potevano mancare. Va detto però che ogni villa si poteva discostare un tantino nella forma, per rispondere alle esigenze di quanto finalizzato: se più festaiola o più indirizzata all’agricoltura. Sommo interprete di questa ricchezza è stato il Palladio. 

In realtà la villa veneta aveva in ispecie il fine di valorizzare la terraferma, con la produzione di quanto serviva per l’alimentazione a Venezia. Le barchesse ospitavano gli attrezzi e i raccolti.

Oggi che i tempi son cambiati, i proprietari di alcune di quelle ville si ingegnano sul modo di poter farle vivere: chi sfruttando il terreno nella produzione di cereali o con eccellenti vigneti; chi rendendole adatte all’ospitalità, modo eccellente per far godere anche ad altri la loro bellezza. Un bell’esempio di ciò a Silea è la settecentesca Villa Barbaro Gianese, affacciata sul fiume.

Altra celebre è la cinquecentesca Villa Barbaro Valier (ora Battaggia) che presenta affreschi della

scuola di Paolo Veronese. È bella la scenografica scalinata guarnita di statue che porta all’imbarcadero sul Sile, e l’oratorio dell’Assunzione di Maria, costruito questo nel ‘700.

Ancora il nome Barbaro compare per la quattrocentesca Villa Nani Barbaro

della vicina Lughignano. Fu nella disponibilità si dice di Caterina Cornaro, che la diede alla sua damigella Fiammetta in dono di nozze. La storia però si perde, di attestata c’è la proprietà di Pietro Alvise Barbaro nel 1648. Dopo la grande guerra l’edificio malandato rimase trascurato, lo acquistò l’agricoltore Padoan, per uso contadino. Su interessamento di Bepi Mazzotti giornalista-scrittore-fotografo, autore del volume “Le Ville Venete”, il rudere fu acquistato da Enrico Gabbianelli ingegnere milanese, che lo salvò dalla demolizione. L’edificio del ‘400 è oggi nella proprietà di Bepi de’ Longhi, imprenditore di Treviso, nonché mio compagno di scuola. È elegante, rappresenta il momento di passaggio tra l’architettura gotica e la ripresa degli ordini classici del Rinascimento. Bello il lato che guarda il fiume, col portico composto da cinque archi a tutto sesto sorretto da quattro colonne con capitelli finemente lavorati; interessante la quadrifora sovrastante.

Sono state molte le ville demolite a Silea, ma ne esistono ancora quindici.          

D’interesse è anche il Centro per la reintroduzione della cicogna bianca all’interno del Parco del

Sile, dov’è possibile osservare l’elegante volatile dal bianco piumaggio .                Paolo Pilla