
A due anni dal 7 ottobre 2023, a far seguito della tregua diplomatica e sulle nuove prospettive, Sharon Nizza racconta da Tel Aviv il vissuto e la nuova situazione tra la gente in Israele.
È l’autrice del volume il 7 ottobre 2023, Israele. Il giorno più lungo, un più che interessante volume di cronaca vera che si può acquistare anche su Amazon.
Il mondo ha assistito in diretta alla più devastante tragedia della storia dello Stato di Israele, un eccidio orchestrato da Hamas in cui sono state uccise 1.204 persone, 310 tra soldati e poliziotti, 817 civili israeliani e 77 cittadini stranieri.
251 persone sono state rapite, di cui 37 cittadini stranieri e 25 soldati. Sharon Nizza ha ricostruito tramite una cronaca dettagliata i momenti cruciali che a partire dalle 6.29 hanno scandito l’orrore di quel sabato nero, intrecciando testimonianze dirette, filmati, documenti, messaggi e telefonate per riuscire a descrivere ciò che è apparso per quell’intera giornata totalmente indescrivibile.
Sharon Nizza è una affermata giornalista e producer per diverse state italiane e internazionali, analista di questioni medio orientali e vive in Israele da oltre 20 anni.
L’abbiamo raggiunta a Tel Aviv per avere il punto reale della nuova situazione che si è instaurata, vista e raccolta direttamente dalle strade e dalla gente dello Stato di Israele.
Microfono quindi a Sharon Nizza. Da Tel Aviv sono giornate estremamente emozionanti,diciamo vissute quasi come un momento in cui si può iniziare a respirare.
Questo avviene dopo che lunedì mattina sono stati rilasciati i 20 ostaggi ancora viva che erano ancora detenuti a Gaza e ancora non è chiaro quello che succede invece per quanto riguarda gli ostaggi morti.
Ci sono 28 ostaggi morti in teoria secondo la fase dell’accordo, quello che è stato annunciato da Trump ormai due settimane fa. Tutti gli ostaggi dovrebbero essere ritornati.
Nel frattempo Israele invece ha liberato 2.000 tra ergastolani palestinesi detenuti nelle carceri israeliani condannati per atti di terrorismo, condannati proprio a ergastoli per attentati omicidi e altri detenuti palestinesi che erano stati invece arrestati dopo l’attacco del 7 ottobre.
Questo appunto è già avvenuto e anche sono stati rilasciati dei corpi di palestinesi, i combattenti palestinesi che erano trattenuti da Israele, questo nell’ambito del rilascio di quattro cadaveri di ostaggi. Però appunto 24 ostaggi ancora non è chiaro cosa succederà.
Ora dove ci troviamo in questo momento? Lunedì all’Akenesset, al Parlamento israeliano, è arrivato Trump, ha pronunciato un discorso molto ampio e dopo di che è partito per Sharm el Sheikh direttamente dove invece è eseguito questo summit in cui erano presenti esponenti sia dei paesi occidentali, tra cui anche Giorgia Meloni, l’unica donna presente peraltro, e soprattutto la cosa fondamentale che è riuscito a fare Trump, è riuscito a mettere insieme una serie di attori del mondo musulmano, compreso rappresentanti dal Pakistan, c’era Erdogan dalla Turchia, c’era il presidente dell’Indonesia, rappresentanti dei paesi del Golfo, insomma questo è stato molto rilevante perché in questo summit c’era ancheil presidente dell’autorità nazionale palestinese Abu Mazen, dopo che i rapporti tra l’ANP e l’amministrazione Trump si erano interrotti appunto ancora nell’amministrazione precedente, nel 2018, e questa fase, questa parte del viaggio di Trump in Medio Oriente, questo viaggio lampo, è volta a iniziare a capire se si può procedere verso l’implementazione delle fasi successive del piano presentato da Trump.
Ora, torniamo un attimo a capire che cos’è il piano presentato da Trump. Trump due settimane fa ha presentato un piano accanto a Netanyahu, che l’ha accettato, un piano di venti punti, molto ambizioso, non molto dettagliato, e questo ci fa capire quanto le insidie appunto sono diverse, perché non è tutto scritto tutto chiaro, è ancora tutto da essere in qualche modo negoziato de facto, che parte appunto con la prima fase dallo scambio degli ostaggi, ma è scritto espressamente tutti gli ostaggi vivi e morti, in cambio delle rilasce dei peggiorieri palestinesi, per poi scattare ad altre fasi.
Le fasi successive sono variate, ma ne menziono quelle principali. Ovviamente la prima fase ha anche previsto il ritiro israeliano da alcune aree della striscia di Gaza, al momento l’esercito israeliano si trova su una lima che viene chiamata la linea gialla, e rappresenta una presenza nel 53% della striscia di Gaza. Dopodiché se implementate le fasi successive Israele avrà altri due linee di ritiro, fino a mantenere un perimetro soltanto, che è il controllo del corridoio Philadelphia al confine con l’Egitto.
Però queste appunto sono fasi successive. Cosa deve succedere adesso per procedere con queste fasi? Perché far sì che questa non sia soltanto una tregua, ma un cessato di fuoco permanente? La prima condizione è il disarmo di Hamas e l’esilio degli ultimi leader che sono rimasti dentro la striscia di Gaza all’estero.
Dopodiché si parla della creazione di un meccanismo internazionale che gestirà la prima fase amministrativa della striscia di Gaza, per orientare un po’ tutto quello che riguarda la ricostruzione della striscia di Gaza.
In parallelo a questo, l’autorità nazionale palestinese guidata da Abu Mazen dovrebbe implementare una serie di riforme strutturali per quanto riguarda la corruzione, per quanto riguarda il ripristino di un approccio democratico, perché non c’è nessun tipo di elezioni o anche riunione degli organi legislativi e dell’ANP da diversi anni.
Nonché una riforma, e proprio questo è menzionato nel piano, nel sistema educativo, questo è menzionato da tutte le parti, cioè parlare di un’educazione che marginalizzi l’odio, che marginalizzi l’estremizzazione.
Un’altra delle riforme importanti che è richiesta all’ANP è quella di abbattere il meccanismo per cui i terroristi palestinesi condannati ai prati di terrorismo contro gli israeliani ricevono degli stipendi mentre sono in carcere.
Ecco, questa è una delle riforme che devono essere fatte. Mentre tutto questo deve avvenire, ci sarà questo meccanismo in parallelo, di cui è stato fatto il nome di Tony Blair, come dire il manager di questo apparato, con la presenza di paesi diversi, in particolare si è parlato ovviamente dell’Egitto, della Giordania per fare la formazione della polizia palestinese, si è parlato di Paesi del Golfo come finanziatori principali di tutto quello che dovrà accadere ora, bisogna capire quale sarà il convolgimento della Turchia e del Qatar.
Ecco, tutto questo però sono tutto incognite, perché al momento noi de facto ci troviamo ancora solo, unicamente, nella prima fase che non è stata ancora del tutto implementata e le insidie sono enormi, perché potrebbe anche essere che non venga completata questa fase e quindi la domanda è come ci si approccerà al resto delle fasi.
Se posso dirlo anche dal punto di vista proprio israeliano, questo comporta anche una possibile crisi di governo israeliana.
Le elezioni israeliane sono previste nell’ottobre 2026, è importante perché tra gli attori regionali e in sostanza solamente in Israele avvengono delle elezioni e quindi questo sarà anche un cambiamento molto molto drastico rispetto alla futura linea in base a se Netanyahu si ricandiderà, se verrà eletto, se avrà i numeri per governare.
In questa prima fase, giovedì scorso, quando è stato portato davanti al gabinetto che doveva votare appunto questa prima fase dell’accordo, alcuni ministri dell’attuale coalizione israeliana si sono opposti all’accordo, che sono quella fazione più estremista del governo israeliano, composta da Smutris e Benvir, forse sono nomi che l’ascoltatore conosce, che si sono opposti proprio perché sono contraria alle rivelazioni birgastolane, in particolare, dalle parceri israeliane e sostenendo che questo sia il presupposto per riperpetuarsi la minaccia, la possibilità di minacce nel futuro 7 ottobre.
Ma Netanyahu invece ha deciso che segue le linee guida dettate da Trump e quindi ha intrapreso questo percorso.
Questo può voler dire che a stretto giro, se non si va avanti, è un po’ un paradosso perché paradossalmente se si andrà avanti, se ci sarà un’implementazione del piano di Trump partiale in un certo senso, in cui non è ben chiaro in che modo Hamas sarà disarmato, questa è veramente la cosa chiave, gli altri partiti più estremisti potrebbero far cadere il governo.
In ogni caso, a quel punto far mancare i numeri al governo per eventualmente far passare altre decisioni e critiche, ma in ogni caso anche le opposizioni israeliane hanno sempre detto a Netanyahu che lo sosterranno, se ci fosse bisogno, gli daranno una rete di sicurezza.
Dopodiché è chiaro che in quel caso ci sarebbero elezioni anticipate. La situazione è veramente ancora instabile.
Abbiamo sentito Trump parlare con grandi riteti di questo giorno, l’allalma di un nuovo Medio Oriente.
Di certo ci sono prospettive interessanti perché quello che noi vediamo è che lui è riuscito a mettere in piedi una coalizione molto vasta e varia di paesi, sia mustulmani sia israeli, a dare il consenso a questo piano.
Poi, de facto, Netanyahu, che è stato invitato al summit di Shalme Sheikh, non si è presentato.
Ricorreva quel giorno la festività di Sinfattorà, che è l’ultimo giorno in cui si legge il rotolo della Torah, dell’Antico Testamento.
Siamo in una fase che è ancora estremamente complessa e bisogna essere cauti, anche se a livello di dispensazione nel Paese c’è l’idea che forse si può svoltare e guardare una nuova fase che non sia più bellica ma quantomeno diplomatica.
Qui è molto importante capire il ruolo della comunità internazionale e credo sia anche un po’ critico il ruolo degli attori medio orientali, perché qui stiamo anche parlando dell’ampliamento della cerca degli accordi di Abramo, la cerca di questi paesi medio orientali.
Nel 2020 Trump aveva allacciato le relazioni diplomatiche con Israele, che ricordiamo erano il Bahrain, gli Emirati Arabi Uniti, il Marocco e il Sudan.
Il Sudan purtroppo è approfondato in una guerra civile, quindi è un po’ sospesa, però qui si parla di altri paesi, si parla dell’Indonesia, si parla ovviamente del grande premio che sarebbe l’Arabia Saudita, che hanno tutti espresso interesse a allacciare le relazioni diplomatiche con Israele, ma bisogna dare una prospettiva per una soluzione della questione palestinese. Infatti il piano dei 20 punti termina, come dicevo, con il riconoscimento di una forma di statualità palestinese molto generico e che è un po’, per come io vedo le cose, quelle affermazioni che vanno dette, quantomeno vanno dette, poi bisogna capire in che modo possono essere implementate de far sì che questi paesi arabi, se allora volessero procedere con un avvicinamento a Israele, quantomeno di facciata sappiano che c’è un impegno da parte di Israele a non sotterrare definitivamente la questione della statualità palestinese.
Per chiudere, solamente anche altri due fronti interessanti, perché Israele è stata impegnata in 7 fronti di guerra bellici in questi due anni, tra cui anche il Libano e la Siria, ovviamente anche lo Yemen con i Houthis e l’Iran, ma Libano e Siria anche arrivano dei segnali interessanti.
Il Presidente libanese Aoun ha fatto una dichiarazione in cui ha detto che siamo in un’atmosfera generale di compromesso e di accordi rivolgendosi a Israele, quindi parlando della prospettiva che anche il Libano, che è un acerrimone amico di Israele con cui sono state combattute le guerre, l’ultima fino a pochissimo tempo fa, è predisposto a andare avanti, perché anche tra il Libano e Israele c’è una tregua da novembre scorso, a far qualcosa di più di una sola tregua.
Anche lì quindi interessante. E la Siria, la nuova Siria, dopo la caduta di Assad, pare che si stia avvicinando.
Ci sono stati già incontri sia intermediati sia diretti tra ministro degli estri siriani e ministro delle questioni strategiche israeliano Ron Dermer a Parigi, sono stati più volte questi colloqui per parlare di un possibile accordo di non belligeranza, che anzi sarebbe qualcosa di storico, che è impensabile in quel Medio Oriente pre-7 ottobre.
Il 7 ottobre in sostanza si è posto come una linea dello spartiacco tra un Medio Oriente del prima e del dopo e adesso siamo, dopo due anni di guerra atroce, forse possiamo iniziare a intravedere l’inizio di una strada diplomatica, ma appunto è tutto ancora in salita.
Direttamente da Tel Aviv la giornalista Sharon Nizza, Giova ricordarlo, autrice del libro Il 7 ottobre 2023, Israele il giorno più lungo, quindi profonda conoscitrice della situazione.
In questa occasione ci ha dato modo di conoscere quella che è la situazione attuale in Israele, quello che nello stato ebraico mediamente pensa la gente comune.

