31 luglio – Il tempo ha interrotto le sue stravaganze, è una giornata bellissima, temperatura mite, che nutre il piacere.

Con due amici sinceri: Piero e Giancarlo che amano viaggiare sull’acqua quanto e più di me, con qualsiasi imbarcazione. E’ divenuto un rito la scorrazzata annuale in laguna, ricca di poesia e di tanto altro. L’imbarco è a Portegrandi sulla bella barca di Piero,

undici metri di comodità, che rivediamo con gioia. Completata l’armatura, ci aspetta la piacevole calma discesa sul Canale Silone,

quell’ultimo tratto del vecchio letto del Sile, prima che la Serenissima ne modificasse il percorso. Ne curò il prolungamento infatti fino a all’odierna Caposile, facendolo poi sfociare direttamente in Adriatico nella sede della Piave vecchia, fatta avanzare anch’essa fino alla  foce a Cortellazzo. Il tutto fatto per evitare l’interramento della laguna.

È all’altezza di Torcello che le acque del Silone vanno a  confondersi con quelle della Laguna, la più grande laguna del Mediterraneo.

Scarso moto ondoso, il trasferimento è stato di tutto relax. Nostra destinazione di maggior interesse era l’isola di San Lazzaro degli Armeni, situata accanto a Pellestrina. Per arrivarci dovevamo ancora macinare tanta acqua, Giancarlo quindi è sceso velocemente  a Burano, a cercare un “fritolin”, ed è tornato con tre magnifici piatti di pesce fritto e polenta abbrustolita.

Per aprire in bellezza ben ci stava lo spumante del Piero, quello buono, a dare il benvenuto a quella grazia di Dio. Per quella festosa scorpacciata di pesce mangiato in barca ancora caldo, è andato bene anche passare poi al merlot della vigna del Paolo, appassionato cultore del vino genuino, privo di solfiti. È stato un banchetto che ci ha fatto provare ebbrezza. Son cose per cui non ci sono abbastanza parole per descriverle: il mare, il cielo, il cibo, la compagnia! Andante con Brio, Allegro, siamo arrivati alla meta, a conoscere gli Armeni e la loro cultura. Era da tempo che desideravo farne una più approfondita conoscenza.  L’attesa di apertura dei portoni è stata confortata

dall’ombra degli alberi, e dal silenzio della casa madre dell’ordine dei Mekitaristi. Sette ettari di isola occupati dal Monastero, che ospita 22  monaci. Va ricordato che molto prima dell’arrivo degli Armeni l’isola era usata come lebbrosario.

Fu nei primi anni del ‘700 che la Repubblica di Venezia concesse in uso l’isola ai monaci armeni fuggiti dal Peloponneso perseguitati dai Turchi. Da allora la abitarono stabilmente, e divenne un centro importante per la rilevante biblioteca, la pinacoteca, il museo. Persino Napoleone ebbe a risparmiarla riconoscendone l’importanza per la scienza. La biblioteca contiene 170.000 volumi, un terzo dei quali manoscritti. Ma non ci sono solo libri e quadri, c’è molto altro. Ci sono reperti archeologici armeni, una mummia egizia dell’800 a.C. con anche il sarcofago, qualche statua.

Sul soffitto nobilita ancor più l’edificio l’allegoria della Giustizia, affresco eseguito dal Tiepolo.

Il monaco più famoso di quel popolo è stato Mekitar di Sebaste,

che contribuì grandemente alla rinascita della letteratura armena in lingua classica; compose  un dizionario di armeno, un’edizione della Bibbia, e molti altri pregiati testi. Creò la Comunità di San Lazzaro – centro culturale e scientifico, e promosse la costruzione di una tipografia. Lo rese insomma un considerevole centro culturale. La visita è stata per tutti estremamente interessante!

Al rientro non poteva mancare una puntata a Mazzorbo, dagli amici Gastone e Dariella, quelli che hanno una vigna ultracentenaria  di Dorona, l’uva con cui si faceva il vino dei Dogi. Titolate aziende vitivinicole vegliano e si dichiarano impegnate a che non vada perso il seme. Gastone amante della natura è profondo conoscitore dell’agricoltura, la bella Dariella è l’impersonificazione  dell’atleta. È stata campionessa di voga con la “mascareta”. Questi amici non sono privi di valenza culturale, per cui rimane molto piacevole la conversazione. A casa di questi signori quindi un’abbuffata di simpatia, e poi il ritorno a casa sostenuti dall’acqua del Silone.              Paolo Pilla