È questo il più piccolo Comune della provincia di Treviso, adagiato sul bacino naturale del Livenza; si estende su entrambe le rive del fiume, subito a valle della convergenza con il canale Resteggia. La cittadina insiste su di una vasta area rurale di circa 340 ettari, di particolare pregio naturalistico: il famoso Prà dei Gai, che amministrativamente appartiene ai comuni trevisani di Portobuffolè, Gorgo al Monticano, Mansuè, e là dove il Veneto lascia posto al Friuli, al comune di Prata. È una golena naturale molto grande, un’oasi naturalistica di rara valenza, costituita in prevalenza da prati stabili adibiti al pascolo, pioppeti, e rare colture seminative. Al suo interno, una rete idrica di risorgiva. I prati  godono di fertilità legata alle esondazioni del Livenza, in un ecosistema irripetibile, naturale cassa di espansione nel corso delle piene del Livenza.

Seppur piccolo, il paese è ricco di storia, ed è inserito nell’elenco dei borghi più belli d’Italia.

Nell’area sono anche presenti alcune caratteristiche “mutare”, quelle alture dette anche “Castellieri”, testimonianza dei Veneti antichi, che fungevano di vedetta. Accanto al ponte sul Rosego, il corso d’acqua di risorgiva che attraversa per intero il Prà dei Gai, è documentabile uno di questi castellieri. Si distingue facilmente, per l’antica quercia che ne sovrasta la cima, e per essere luogo di confluenza del Rosego con la Livenza. E qui, regna una fitta concentrazione arborea.

Fino a pochi anni fa, in primavera, i Comuni del sito mettevano in asta pubblica porzioni di questi terreni, assegnandoli ai contadini per la raccolta del fieno, e per far pascolare il bestiame.

In fase di asciutta, l’ambiente riveste importanza  per la riproduzione di numerose specie di uccelli, alcune rare, che quando sono in migrazione, lo sfruttano come passo o svernamento.

Mi ha sempre attratto questo piccolo centro, ma ancor più mi ha incuriosito il toponimo. Di antica origine, Portobuffolè viene riportato nel 1242 come castrum, o portus Bufoledo; si pensava derivato del latino “bufalus”. Sarebbe abbastanza attendibile, visto che quel territorio, sovente allagato, era adatto alla vita dei bufali che possiedono zampe più larghe del bue, permettendo quindi maggior presa sul fango. E però, al tempo dei Romani, la località si chiamava Septimum de Liquentia, in quanto distava sette miglia da Opitergium, e insisteva nell’ansa del fiume Livenza. Qualche secolo dopo, era chiamato Portus Buvoledi, dal latino medievale “bova”, che indica “canale”. Seconda altri l’origine è rintracciabile nelle “bufaline”, nome delle barche che venivano usate per navigare sul fiume.

Dagli scritti dello storico padovano Tito Livio, autore degli “ab Urbe condita”, conosciamo tuttavia l’esistenza del Portus Liquentiae, stanziamento di agricoltori e pescatori, dotato di un sistema difensivo lungo il fiume Livenza, il cui nome era appunto Septimum de Liquentia.

Un po’ di storia: Esisteva in sito un castello, ne dà testimonianza il contratto d’affitto con cui il vescovo di Ceneda accordava al doge di Venezia l’uso del porto di Settimo.

Attorno al 1300, è Gaia da Camino a fissare dimora a Portobuffolè, sposa di Tolberto dei Caminesi conte di Ceneda e signore di Portobuffolè.

Nel ‘600 Portobuffolè soffre dapprima per una carestia in cui muoiono di fame 244 persone, poi la grande peste, descritta dal Manzoni nei Promessi Sposi, che miete molte vittime.

Dopo la caduta della Serenissima ad opera di Napoleone nel 1797, tutto il Veneto, quindi anche Portobuffolè, segue il destino di Venezia dominata prima dai francesi e poi dagli austriaci, fino alla 1^ guerra mondiale.

Ma la laboriosità delle sue genti creano ricchezza al territorio, il buon gusto e l’attaccamento alle proprie radici, rendono la cittadina un gioiello, atto ad arricchire di bellezza il territorio trevisano.

Interessanti le cose da vedere: Il centro storico è recintato da mura, si entra dal ponte che un tempo dava l’accesso alla Porta Trevisana, distrutta nel 1918. Ad accoglierci è una piazzetta acciottolata, attorniata da gentili palazzi, con Cà Soler che ha il fronte rivolto in direzione del canale del tempo che fu, ora interrato; sembra cercarlo. Alcuni altri palazzi sono presenti, con resti di affreschi attribuiti al Pordenone.

Dalla piazza si arriva subito a casa Gaia, visita da non perdere. È una splendida dimora duecentesca, che conserva la grazia di una cultrice dell’arte e della poesia. Gaia da Camino visse qui fino alla sua morte, avvenuta nel 1311, e venne sepolta in un mausoleo fuori della chiesa di S. Nicolò a Treviso. La sua casa era un tempo torre, fu lei a trasformarla in una piccola reggia. L’edificio è attraente, la facciata è ingentilita da bifore trilobate arricchite di eleganti colonnine, con capitelli a fiore di loto. Gli affreschi che si trovano al primo piano esprimono l’animo gentile di Gaia, che amava infondere serenità agli abitanti. È rappresentato l’antico castello, il ritratto suo e di Tolberto, seppur questi ultimi appena abbozzati. I piani superiori indugiano maggiormente su immagini medioevali: torri, ponti levatoi, valletti intenti a conversare. Gaia scriveva poesie dallo spirito provenzale, è considerata una delle prime poetesse in volgare. Afferma Giovanni Bertoldi da Serravalle nel commento allo scritto di Dante Alighieri: “scivit bene loqui rythmatice in vulgari”.

Gaia e il padre Gherardo III da Camino, capitano generale di Feltre e Belluno, e signore assoluto di Treviso, sono immortalati da Dante, nel XVI canto del Purgatorio.

La bella loggia è stata adattata a museo, al suo interno c’è un affresco del quattrocento tratteggiante una veduta della città, e narra inoltre tratti della storia contadina. Ospita anche il Museo del Ciclismo «Alto Livenza», uno dei più importanti musei italiani dedicati al ciclismo, in cui è posto in evidenza il mito di Ottavio Bottecchia, le maglie iridate, rappresentanti le conquiste.

Nelle piazze, nelle vie del borgo medievale d’impronta veneziana, e nel Fontego (la bella loggia del palazzo del Podestà), sono frequenti le manifestazioni, dov’è possibile gustare i piatti tipici locali, tra cui spiccano le trippe di Santa Rosa, e l’antico piatto del borgo contadino: la zuppa matta, preparata con zucca, latte e funghi. Una leccornìa!!!

Il castello aveva sette torri, ne rimane una, alta 28 mt, ora museo dedicato all’arte contadina. L’orologio aveva un buco, da cui calavano i condannati. Accanto alla torre, il palazzo del Governo, in cui è ancora visibile la scritta: “fatta dalle fondamenta il 9 marzo 1187”. La facciata cinquecentesca del Veneziano Monte di Pietà, ha una chicca: il “leon in moeca”, impossibile da vedere altrove.

Il Duomo era un tempo una sinagoga, accanto c’è una pietra, con il candelabro ebraico a sette braccia. Fu consacrato nel 1559, al suo interno fa bella mostra un crocefisso ligneo del ’400, e un organo Callido, con 472 canne di zinco e stagno, costato nel 1780, 4000 lire-oro venete.

Sopra la porta Friuli, c’è invece un Leone di San Marco curiosamente rimaneggiato da Napoleone, osannante i “diritti e doveri dell’uomo e del cittadino”.

Fuori mura, il palazzo Giustinian del 1695, l’oratorio di Santa Teresa e la chiesa dei Servi del 1500, la chiesa di San Rocco con la Madonna della Seggiola, scultura lignea del 1524.

Mitico! Non ci si aspetta di trovare in un sito di campagna, così tanta bellezza.    Paolo Pilla